La preparazione del movimento è indipendente dal suo inizio

 

 

NICOLE CARDON

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 30 aprile 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Il tempo di reazione è una misura molto importante per l’esplorazione funzionale dei processi nervosi, ed è rilevante sia nello studio sperimentale sia in neurologia clinica. La precisa relazione con parametri elementari di funzione psicomotoria e cognitiva, rende il tempo di risposta motoria un valore affidabile per ricavare informazioni sullo stato neurofisiologico di base di una persona e sull’eventuale alterazione indotta, ad esempio, dall’uso di sostanze psicotrope come alcool etilico e droghe, oppure da eventi traumatici o processi patologici. Ricordiamo che nella risposta motoria ad uno stimolo sensoriale (in genere visivo) la costante, rappresentata in condizioni fisiologiche dal tempo di percorrenza delle vie nervose in entrata e in uscita, consente di calcolare il tempo centrale di processo[1].

Iniziare un movimento in risposta ad uno stimolo visivo richiede un tempo significativamente più lungo di quanto ci si possa attendere sulla base degli intervalli imposti dalla fisiologia della neurotrasmissione. Tale ritardo non ha ancora avuto una spiegazione sperimentalmente provata, per questa ragione Haith, Pakpoor e Krakauer hanno allestito esperimenti particolari in cui hanno costretto dei volontari a muoversi con tempi più bassi di quelli fisiologici per verificare se il “ritardo fisiologico” di risposta fosse necessario per un movimento accurato. Da queste prove ha preso le mosse uno studio dai risultati di sicuro interesse.

(Hait A. M., et al., Independence of Movement Preparation and Movement Initiation. Journal of Neuroscience 36 (10): 3007-3015, 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Neurology and Neuroscience, Johns Hopkins University, Baltimore, Maryland (USA); Department of Neurology and School of Clinical Medicine, University of Cambridge, Cambridge (Regno Unito).

Fin dalla metà del secolo scorso, quando Penfield disegnò la mappa dei territori della corteccia cerebrale corrispondenti alla periferia di tutto il corpo, con i due famosi omuncoli, l’uno sensitivo, disposto lungo il versante posteriore della scissura centrale, e l’altro motorio, lungo il versate anteriore, si conosce la precisa rappresentazione somatotopica corticale, conservata attraverso le vie lemniscali e piramidali, e le si è attribuito un generico ruolo di controllo sui processi sottocorticali. La comprensione del ruolo della corteccia nel movimento, del quale si conoscevano le basi dei riflessi spinali e troncoencefalici, così come l’origine dei caratteri nei nuclei della base, rimaneva un problema irrisolto. In una recente recensione, Roberto Colonna ha riassunto l’evoluzione che ha condotto alla concezione attuale:

“Per secoli si è ritenuto che la corteccia cerebrale umana fosse responsabile unicamente di funzioni di “ordine superiore”, ossia dei processi alla base del pensiero, della rievocazione, dell’anticipazione, delle abilità logiche, di astrazione, di comunicazione, di elaborazione cognitiva dell’esperienza, e così via. Solo a metà del XIX secolo, basandosi sull’osservazione di casi di epilessia motoria, il neurologo John Hughlings Jackson avanzò l’ipotesi che una specifica parte della corteccia cerebrale del lobo frontale avesse un ruolo causale nella genesi dei movimenti. Le manifestazioni cliniche osservate da Jackson durante le crisi epilettiche consistevano in improvvisi e ripetuti movimenti spastici involontari, che a volte sembravano frammenti delle sequenze che eseguiamo nelle azioni volontarie finalizzate ad uno scopo preciso. Durante ciascun episodio le contrazioni si estendevano a diverse parti del corpo secondo una sequenza temporale fissa, che variava da un paziente all’altro. Tale schema di manifestazioni si definisce ancora oggi in neurologia marcia jacksoniana. Jackson dedusse che l’attività elettrica parossistica dei foci epilettici localizzati nelle aree della corteccia frontale prossime al solco centrale fosse responsabile dell’attivazione spastica, automatica e involontaria, di frammenti degli atti motori che in condizioni normali sono guidati dall’intenzionalità volontaria ed espressi nella loro armonica ed integrata compiutezza. Jackson propose che la progressione delle manifestazioni convulsive neuromuscolari lungo i segmenti corporei fosse la conseguenza della diffusione dell’attività elettrica parossistica attraverso piccoli blocchi di neuroni, ciascuno dei quali preposto al controllo motorio di una parte di periferia muscolare secondo una precisa mappa somatotopica. Per inciso, si ricorda che questa interpretazione costituì il principale riferimento per la concezione localizzatrice delle funzioni corticali, insieme con le osservazioni di Paul Broca sull’afasia motoria da lesione del piede della circonvoluzione frontale inferiore (area 44 di Brodmann) e di Karl Wernicke sull’afasia recettiva da lesione di territori circostanti il giro angolare (area 22 di Brodmann). Una concezione tanto influente da costituire la traccia sulla quale un secolo dopo fu sviluppato il modello classico della fisiologia della corteccia cerebrale umana, grazie agli studi di Penfield e Rasmussen nell’uomo e di Woolsey nella scimmia.

Un contributo decisivo all’identificazione delle aree corticali implicate nell’avvio del movimento lo diede negli anni Cinquanta del Novecento la tecnica, impiegata da Herbert Jasper, della registrazione cronica mediante microelettrodi dell’attività elettrica di neuroni cerebrali di animali impegnati in attività naturali. Un lungo e faticoso cammino sperimentale ha portato dall’identificazione della corteccia motoria primaria (M1) come base per l’origine dei comandi motori, alla comprensione della natura di tali comandi quali codici di popolazioni neuroniche”[2].

La definizione di una precisa mappa corticale dell’uscita motoria verso tutti i distretti somatici periferici ha a lungo condizionato la concezione della fisiologia cerebrale del movimento. Per molti anni, il ruolo della corteccia motoria si è ritenuto che consistesse esclusivamente in una mappatura di muscoli ed attività muscolari, mediante la quale il resto della corteccia potesse esercitare il controllo dei motoneuroni spinali. La denominazione “motoneurone superiore” delle cellule di moto corticali, contrapposta a “motoneurone inferiore”, riferita alle omologhe spinali, riflette questa interpretazione. Anche se in clinica neurologica permangono espressioni del tipo “malattia del motoneurone superiore”, oggi sappiamo che questa schematizzazione interpretativa è per molti versi erronea. La corteccia motoria, infatti, gioca un ruolo nel controllo dei movimenti volontari, e i suoi neuroni non si limitano a codificare gli schemi di attività muscolare come i neuroni troncoencefalici e spinali, ma costituiscono una popolazione con specializzazioni funzionali al suo interno, che le consentono di intervenire nelle differenti operazioni richieste per convertire un piano d’azione nei comandi motori che eseguono il piano.

Oggi si considera la corteccia motoria primaria quale parte di una rete distribuita di aree corticali motorie, ciascuna delle quali assolve ad un compito specifico nel controllo della motricità volontaria. John Kalaska e Giacomo Rizzolatti sostengono che la corteccia motoria primaria dovrebbe essere considerata come una mappa computazionale dinamica la cui organizzazione interna e le cui connessioni spinali consentono di convertire i segnali centrali relativi alle intenzioni motorie e il feedback sensoriale circa lo stato corrente degli arti, in comandi di esecuzione motoria[3].

Si è ritenuto opportuno riprendere queste nozioni, anche elementari, di fisiologia del controllo corticale del movimento per ricordare la complessità e l’incompiutezza delle conoscenze in nostro possesso. Le evidenze che emergono dalle misure dei tempi di risposta, come quelle presentate in questo studio, non valgono solo di per sé, ma per l’indirizzo che forniscono alla ricerca sulle basi neurali di questi processi. Abbiamo bisogno di chiarire molti aspetti circa quali gruppi neuronici cerebrali e in che modo determinano risposte motorie che potrebbero essere eseguite solo grazie ai meccanismi spinali.

Dopo questa discussione introduttiva, torniamo al lavoro qui recensito.

Haith e colleghi, per definire la ragione del ritardo fisiologico che si registra nell’avvio di un movimento dettato da uno stimolo visivo, in una prova consistente in un movimento finalizzato a raggiungere un oggetto, hanno costretto dei volontari a muoversi con tempi di reazione inferiori alla norma. Lo scopo di questa costrizione era, ovviamente, verificare se i tempi di reazione fisiologici (più lunghi) sono necessari per la precisione del movimento.

È emerso che i volontari erano capaci di risposte corrette pur muovendosi con circa 80 millisecondi di anticipo rispetto alla media dei propri tempi di reazione.

Un tale esito sperimentale indica che i tempi di reazione normalmente impiegati includono un ritardo non necessario che, approssimativamente, costituisce un terzo della loro durata complessiva. L’analisi dettagliata delle batterie di risposte (reaction-time measures), registrate dai partecipanti all’esperimento nelle condizioni di saggio, ha rivelato che si generavano occasionalmente errori spontanei nelle prove in cui i tempi erano insolitamente brevi. Il profilo di questi errori è tale da essere compatibile con un semplice modello in cui la temporizzazione del’inizio del movimento sia indipendente da quella della preparazione al movimento stesso.

Una tale indipendenza fornisce una risposta alla domanda circa il perché i tempi di reazione fisiologica sono più lunghi del necessario: ritardando il tempo medio dell’inizio del movimento dopo la preparazione, si riduce il rischio che un movimento possa essere avviato prima che sia stato adeguatamente preparato.

I risultati ottenuti da Haith e colleghi suggeriscono che preparazione ed inizio del movimento sono due processi indipendenti in termini di meccanismi e possono avere una base neurale distinta.

Un’altra evidenza emergente dal’esito degli esperimenti, per il cui dettaglio si raccomanda la lettura dell’articolo originale, è che anche in prove stimolo-risposta strettamente guidate dalla percezione evocatrice, la presentazione di uno stimolo non induce direttamente un movimento. Sembra, invece, che l’effetto dello stimolo sia quello di evocare un processo interno di decisione consistente nella scelta di compiere o meno il movimento. Se questa interpretazione è corretta il controllo sarebbe esercitato attraverso la volizione e non secondo una modalità semplicemente reattiva.

L’importanza di studi come questo per la ricerca delle basi neurobiologiche del controllo del movimento rischia di essere sottovalutata, se non se ne coglie il valore di traccia concettuale. Il fattore tempo nella risposta corticale studiata con metodi elettrofisiologici può fornire indicazioni anche a chi indaga con altri metodi funzioni corticali e sottocorticali secondo altri paradigmi. Ad esempio, la semplificazione che vuole la presenza di un’elaborazione consapevole se è impegnato il circuito di Libet e l’assenza di tale passaggio quando i tempi di risposta sono troppo brevi perché il circuito descritto da Benjamin Libet possa essere stato impegnato, non dovrebbe rimanere un astratto ed ipotetico correlato neurofisiologico della dicotomia “risposta automatica/risposta cosciente”. Dovrebbe invece promuovere l’indagine sui gruppi neuronici che compongono questo circuito, per verificare quale sia il loro ruolo in altri contesti funzionali e, dunque, per tentativo ed errore, provare a tracciare ipotesi di lavoro diverse, al fine di entrare nella logica di quella parte dell’organizzazione funzionale dell’encefalo che ancora ci sfugge[4].

I risultati di questo studio suggeriscono basi neurali diverse per la preparazione e l’avvio di un movimento e un controllo esercitato attraverso la volizione in tempi che sicuramente non appartengono all’ordine di grandezza dei correlati della coscienza, dunque indica una via che potrebbe portare alla scoperta di correlati neurobiologici di atti cerebrali di intenzionalità non cosciente, ossia una parte della base della volontà non presente nell’attualità della consapevolezza, secondo una formulazione cara al nostro presidente.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Nicole Cardon

BM&L-30 aprile 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Tale calcolo consiste nella sottrazione al tempo di reazione totale del valore fisso costituito dal tempo teorico di percorrenza dello stimolo nervoso alla periferia, e si effettua ordinariamente sulle medie dei tempi ottenuti da un compito ripetuto, quale premere un tasto appena compare su uno schermo il cronometro che sarà in tal modo arrestato. Prototipo e precursore dei programmi attualmente in uso è REACT (Reaction Time Measure of Visual Field) realizzato dai coniugi Gianutsos per il loro primo pacchetto di prove-esercizio (test-training) dedicato alla valutazione diagnostica e alla riabilitazione cognitiva assistita da computer (CACR test-training).

[2] Note e Notizie 16-04-16 Sorpresa nella depressione dopo sforzo massimale e submassimale.

[3] Cfr. in Kandel, Schwartz, Jessel, Siegelbaum, Hudspeth, Principles of Neural Science (5th edition), p. 862, McGraw-Hill, 2013.

[4] Questa riflessione è coerente con l’impostazione introdotta da Giuseppe Perrella e trasmessa ai membri della nostra società scientifica.